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Jeans letali
Il processo di invecchiamento dei Jeans, la sabbiatura, e' molto pericoloso per la salute dei lavoratori

Tratto da: http://www.abitipuliti.org/

L’aspetto usurato tanto ricercato dalle attuali tendenze della moda del jeans si ottiene in prevalenza mediante sabbiatura, un processo produttivo che consiste nel sottoporre il capo al getto ad alta pressione di polveri abrasive conferendo al tessuto morbidezza e l’effetto schiarito. E’ una tecnica veloce e poco costosa alla quale la domanda crescente di tessuto denim invecchiato artificialmente ha dato un impulso decisivo. I jeans hanno conosciuto una diffusione di massa dagli anni ’50, ma è solo a metà degli anni ’80 che i produttori hanno iniziato a mettere in commercio capi in tessuto pretrattato per farli apparire logorati dall’uso. Gli anni ’90 hanno inaugurato l’epoca del capo invecchiato imponendo la sabbiatura come metodo di lavorazione d’elezione. Si calcola che quasi la metà dei 200 milioni di jeans esportati dal Bangladesh ogni anno sia stata trattata con sabbiatura. Ma c’è un prezzo da pagare per i capricci della moda, in questo caso molto elevato: la salute e persino la vita dei lavoratori. Esistono due tipologie di sabbiatura: il trattamento manuale e quello meccanico, ed entrambe possono avere esiti mortali. Con la sabbiatura manuale l’effetto di deterioramento si ottiene indirizzando sul tessuto sabbia con aria compressa attraverso un bocchettone e le lavorazioni si eseguono normalmente in ambienti privi di aspirazione dell’aria e di attrezzature di sicurezza, per esempio cabine a camera stagna, esponendo in questo modo gli addetti all’inalazione di particelle di silice disperse nell’aria. Neppure le più comuni mascherine, per quanto insufficienti a proteggere le vie respiratorie, sono fornite ai lavoratori liberamente: le indagini svolte in Bangladesh e in Turchia evidenziano che molto spesso gli addetti sono costretti ad acquistare le mascherine a loro spese, le riusano rendendole inservibili o preferiscono proteggersi naso e bocca con teli. Le polveri, se inalate, possono dare origine a gravi patologie respiratorie e, in caso di esposizione prolungata, condurre a malattie professionali mortali come la silicosi e il tumore polmonare.

Seppure meno comunemente impiegata, la sabbiatura può essere eseguita meccanicamente in ambienti nei quali gli addetti sono fisicamente separati dal materiale da trattare. Ciò dovrebbe garantire una maggiore tutela della salute, tuttavia il rapporto che vi presentiamo dimostra che nel paese esaminato dalla nostra indagine, il Bangladesh, anche la sabbiatura meccanica espone i lavoratori alle polveri di silice poiché le lavorazioni sono effettuate in ambienti aperti e in assenza di dispositivi di sicurezza adeguati. Ne consegue un potenziale alto rischio di contrarre malattie mortali.

In seguito all’adozione da parte di molti paesi europei di restrizioni severe per i trattamenti con sabbiatura (nella UE il tenore in silice della sabbia non può superare l’1%), l’industria dell’abbigliamento ha delocalizzato le attività produttive in paesi che non hanno, o non avevano, ancora una regolamentazione in materia, come la Turchia, il Bangladesh e la Cina (la sabbia comunemente usata può contenere fino al 90-95% di silice). Il primo segnale d’allarme sugli effetti devastanti per la salute dell’applicazione all’industria della moda di questo tipo di trattamento abrasivo è stato lanciato in Turchia grazie a un importante studio scientifico, scritto da medici turchi nel 2005, che mette per la prima volta in relazione la sabbiatura dei jeans con il rischio di contrarre la silicosi. Da allora in Turchia sono stati registrati 52 decessi per silicosi e 1.200 casi di malattia conclamata, ma i medici sospettano che le cifre reali siano di gran lunga superiori.

Nel 2009 la Turchia ha imposto il divieto all’uso della sabbiatura e da allora si sono fatte più pressanti le sollecitazioni rivolte ai grandi marchi della moda affinché cessino di fare ricorso alla tecnica manuale per ottenere gli effetti desiderati. Nell’autunno 2010 è stata lanciata la campagna internazionale di pressione pubblica Killer Jeans in seguito alla quale molti marchi hanno annunciato l’eliminazione della sabbiatura dal ciclo di lavorazione dei jeans. Tuttavia, solo un numero esiguo di imprese ha fornito informazioni precise sulle misure effettivamente adottate a tale riguardo e nessuna ha accettato finora di assumersi la responsabilità di identificare e di sottoporre a trattamento medico i lavoratori operanti nelle filiere produttive che hanno già contratto la malattia.

Per realizzare la nostra indagine sono stati intervistati 73 lavoratori occupati in 7 fabbriche diverse e sono state condotte numerose interviste approfondite con esperti del settore. Poco meno della metà degli operai intervistati ha riconosciuto i loghi di marchi che abbiamo mostrato loro, indicandoli come appartenenti ad aziende per le quali le loro fabbriche hanno eseguito ordini di lavorazione. I principali marchi identificati sono H&M, Levi’s, C&A, D&G, Esprit, Lee, Zara e Diesel, la totalità dei quali, ad eccezione di Dolce e Gabbana che ha sempre rifiutato di fornire informazioni sulle sue tecniche produttive, sostiene di avere abolito l’uso della sabbiatura nelle proprie filiere internazionali.

Abbiamo riscontrato in taluni casi che il divieto imposto dai committenti all’uso della sabbiatura ha avuto qualche seguito, per esempio l’abbandono della tecnica manuale, in particolare nelle aziende di più grandi dimensioni, e la chiusura di alcuni reparti di sabbiatura. Sembra inoltre che alcune fabbriche abbiano sostituito la sabbia locale, ad alto tenore di silice, con sabbia importata. Tuttavia, in generale, l’adozione del divieto è stata disomogenea, monitorata in modo insufficiente e ampiamente elusa, per lo meno nella maggioranza delle fabbriche sottoposte alla nostra indagine.

Lo testimonia il fatto che la sabbiatura manuale non è mai cessata, quali che siano siano le istruzioni fornite dal committente per il suo uso, e spesso viene eseguita di notte in modo da non dare nell’occhio. E’ apparso evidente che nella maggior parte delle fabbriche che ricevono commesse dai grandi marchi o dalla grande distribuzione i reparti di sabbiatura sono ancora in attività. I piccoli laboratori, a loro volta, non hanno mai smesso di impiegare esclusivamente o in prevalenza la sabbiatura manuale. E’ possibile eseguire dei test per scoprire se un tessuto è stato trattato con sabbiatura, ma è un tipo di analisi che nessuna visita ispettiva predisposta dalle imprese committenti prescrive. A questo proposito, un dirigente d’azienda intervistato riteneva che le imprese committenti omettono deliberatamente di effettuare questo tipo di test.

I marchi non sono disposti a modificare lo stile del prodotto o a dilatare i tempi di produzione per permettere ai fornitori di adottare metodi alternativi che comportano lavorazioni più lente e a maggiore intensità di lavoro, con il risultato di continuare a incentivare l’uso, clandestino o alla luce del sole, della sabbiatura.

Il rapporto evidenzia la necessità urgente di informare adeguatamente i lavoratori dei rischi che corrono e questa iniziativa specifica deve rientrare nel quadro più ampio di una serie di misure da adottare per migliorare la prevenzione e la sicurezza nei luoghi di lavoro in Bangladesh, un paese caratterizzato da condizioni di lavoro spaventose con un numero impressionante di infortuni e di decessi ogni anno.

La nostra ricerca mette in luce che molti lavoratori, per lo meno quelli intervistati, sono consapevoli dei rischi potenziali che corrono, ma sono disposti ad affrontarli in cambio delle paghe più elevate che questo tipo di mansione offre, pur sapendo che la vita lavorativa di un sabbiatore può essere di breve durata. Il rapporto rileva inoltre che la diagnosi clinica e le terapie disponibili per questa patologia sono totalmente insoddisfacenti e che non esiste quasi cognizione fra la classe medica della relazione diretta esistente fra il lavoro di sabbiatura dei tessuti e l’insorgere della silicosi.

Ci siamo imbattuti anche in casi di conflitto d’interessi, per esempio aziende di abbigliamento facenti parte di gruppi che controllano organi di informazione e strutture sanitarie.

In considerazione dei rischi evidenti derivanti dall’impiego di entrambe le tecniche di trattamento con sabbia, manuale e meccanica, le imprese proprietarie di marchio hanno il dovere di far cessare non solo la sabbiatura manuale ma anche quella meccanica. La trasparenza di filiera è un presupposto fondamentale affinché sia garantito un adeguato monitoraggio dei fornitori e, a tal fine, i marchi devono rendere pubblici i siti produttivi dei loro fornitori e subfornitori per rendere facilmente individuabili i luoghi dove i tessuti denim subiscono i vari cicli di trattamento.

Il rapporto mostra che il divieto di sabbiatura adottato volontariamente dalle imprese non costituisce un argine sufficiente all’insorgere della malattia fino al suo esito mortale. Proprio per questo spetta ai governi non solo mettere in atto leggi che vietino le lavorazioni con sabbiatura all’interno dei confini nazionali, ma anche porre divieti all’importazione di capi di abbigliamento che abbiano subito lo stesso processo produttivo.

CONCLUSIONI E RACCOMANDAZIONI

Fine della sabbiatura?

Dalle osservazioni effettuate sulla base di interviste a esperti e a lavoratori, lo studio ipotizza che la sabbiatura eseguita manualmente sia stata gradualmente sostituita da quella eseguita meccanicamente. Diverse fabbriche fra quelle esaminate mostrano di avere cognizione del fatto che la richiesta di sabbiatura, per lo meno quella manuale, è in via di declino e che dovranno chiudere i loro reparti di sabbiatura, per questo si stanno attrezzando per sostituire i metodi di abrasione tradizionale con altre tecniche, per esempio facendo ricorso al laser o alla carteggiatura manuale. Vi sono inoltre tintorie che hanno chiuso completamente i reparti di sabbiatura. Tuttavia, la maggior parte delle aziende prese in esame continua a lavorare a pieno ritmo, in particolare i piccoli laboratori che si dedicano esclusivamente alla sabbiatura manuale. Altre fabbriche hanno optato per l’esternalizzazione della produzione dei jeans sabbiati o sono passate alla tecnica meccanica o ad altri processi di finissaggio. E’ difficile valutare con precisione quanto incida realmente questa nuova tendenza tenuto conto delle dimensioni dell’industria dell’abbigliamento del Bangladesh nel suo complesso. Resta evidente che le lavorazioni con sabbiatura manuale o meccanica, sia per esigenze di esportazione sia per il mercato interno, costituiscono per il paese un settore industriale di dimensioni non trascurabili.

Il “divieto” decretato dai marchi: più facile a dirsi che a tradurre in realtà?

Dalle interviste ai lavoratori emerge che la produzione per i marchi che hanno “vietato” la sabbiatura manuale non è mai stata dismessa, anzi spesso viene effettuata di notte e talvolta con il tacito assenso degli acquirenti. Le ispezioni sono rare e solo in queste occasioni gli addetti vengono muniti di dispositivi di sicurezza individuale; per il resto del tempo si opera senza precauzioni in ambienti saturi di polveri ad alto tenore di silice. Persino l’adozione del più semplice dei mezzi preventivi, l’uso di sabbia importata a basso contenuto di silice, viene totalmente omessa nella maggior parte delle fabbriche. Le imprese committenti sono perfettamente a conoscenza dei rischi derivanti dall’uso della sabbiatura, così come del fatto che questo processo è stato bandito in Turchia ed è severamente regolamentato nell’Unione europea, ma non hanno adottato misure sufficienti a garantire che i lavoratori interessati ne siano debitamente informati. L’unica azienda che ha collaborato con le organizzazioni sindacali locali e con le organizzazioni non governative per sottoporre a valutazione il ciclo di sabbiatura all’interno della sua filiera è Gucci il cui processo produttivo viene realizzato per intero in Italia. Ai lavoratori viene detto talvolta, ma solo in termini generici, che esistono dei pericoli e, il più delle volte, essi ne prendono consapevolezza solo dopo aver visto ammalarsi i colleghi.

Vi sono imprese che, nell’annunciare l’abolizione della sabbiatura, hanno dichiarato che avrebbero monitorato tali attività nelle fabbriche dei fornitori. Per esempio H&M, che nel 2010 dichiarò: “Il divieto che abbiamo adottato ci impone comunque di monitorare le condizioni in cui viene svolta la sabbiatura nelle fabbriche dei nostri produttori, pur non essendo più ammesso questo tipo di trattamento per la produzione H&M. Intendiamo in questo modo contribuire a ridurre i rischi per la salute e la sicurezza derivanti dalla sabbiatura per i lavoratori dei nostri fornitori e, più in generale, a migliorare i relativi standard di settore”2 . Ma se abbiamo presenti le condizioni spaventose nelle quali gli addetti alla sabbiatura in Bangladesh sono costretti a operare, risulta del tutto evidente l’estrema difficoltà di svolgere qualsiasi tipo di monitoraggio in un contesto industriale come quello del Bangladesh e la quasi impossibilità di farlo in modo adeguato. Lo confermano le interviste rilasciate dai lavoratori, secondo i quali, nelle loro fabbriche, un monitoraggio costante ed efficace da parte delle imprese committenti è praticamente inesistente.

La cognizione del rischio ha rappresentato un punto focale nella nostra indagine. I medici intervistati non possedevano nessuna nozione del fatto che, nell’industria dell’abbigliamento, la sabbiatura costituisce un problema serio. Il che accresce la probabilità che i lavoratori ricevano diagnosi errate, tali da precludere loro la possibilità di accedere a cure idonee e tempestive, elevando il rischio di decesso una volta contratta la silicosi. E’ pertanto necessario migliorare l’informazione fra i medici specialisti sulla relazione esistente fra la sabbiatura e la silicosi per far sì che in futuro pazienti che hanno operato in questo settore siano sottoposti alle terapie più appropriate. Il quadro osservato in Bangladesh ricorda da vicino la situazione esistente in Turchia prima che i medici riuscissero a diagnosticare correttamente per silicosi la patologia che affliggeva i lavoratori dei jeans addetti alla sabbiatura.  Non solo i lavoratori in Bangladesh non sono al corrente dei rischi che corrono, ma sono costretti a lavorare in turni di 12 ore in ambienti saturi di polveri, spesso senza potersi concedere pause al di fuori di quella per il pranzo, che qualche volta è consumato nella postazione di lavoro. Per poter efficacemente applicare il divieto di sabbiatura che le imprese committenti hanno adottato volontariamente, occorre che ai lavoratori siano dati gli strumenti per informarsi e per far valere i propri diritti. Al contrario, nella maggior parte delle fabbriche esaminate non esistono rappresentanze sindacali, mentre in tutto il paese i comportamenti discriminatori e intimidatori nei confronti di iscritti al sindacato e di funzionari sindacali sono la regola. Non sono neppure garantiti giorni di malattia retribuiti né cure mediche specifiche, gratuite e di buona qualità. Anche per questi motivi spetta ai marchi e ai loro fornitori provvedere a un controllo diagnostico e alle relative terapie per tutti i lavoratori che possono essere stati esposti all’inalazione di polveri ad alto contenuto di silice. Infine, vista la quasi impossibilità di garantire l’effettiva applicazione del divieto volontario di sabbiatura, i marchi devono rispondere per tutti i lavoratori che operano in questo settore, qualunque sia la scelta che hanno fatto, ovvero optare per il divieto oppure no.

Abolire tutti i tipi di sabbiatura

Per quante difficoltà sussistano nel rendere efficace il divieto della sabbiatura e per quanto alta sia la probabilità che laboratori piccoli od operanti nell’economia sommersa continuino a praticarla illegalmente, occorre prendere misure urgenti per una soluzione di lungo respiro. Molte fabbriche si trovano in questo momento in una difficile situazione: non possono chiudere i loro reparti di sabbiatura per dare seguito a un divieto imposto solo da una parte dei loro clienti, e al contempo, mantenendo questi reparti attivi, resta forte la tentazione di ricorrere alla sabbiatura anche per i capi di committenti che l’hanno espressamente vietata, allo scopo di risparmiare denaro e di completare più celermente gli ordini. La compressione dei tempi e dei prezzi imposta ai fornitori rende conveniente per questi ultimi continuare a praticare questa tecnica fino al suo bando definitivo.

E’ opinione dei ricercatori locali, che hanno curato questo rapporto, che un divieto drastico sarebbe di difficile attuazione per tutte le ragioni già evidenziate (inosservanza delle leggi di igiene e sicurezza, ignoranza dei rischi da parte dei datori di lavoro, dei lavoratori e dei medici). Raccomandano invece che sia posto l’accento sulla formazione del personale medico, dei dirigenti aziendali e dei lavoratori sull’uso di adeguati sistemi di protezione e sui rischi connessi alle lavorazioni. Sono misure che possono andare di pari passo con il divieto totale di tutte le forme di sabbiatura nell’industria dell’abbigliamento. Tutto ciò, tuttavia, non può prescindere dalla disponibilità dei marchi e degli stilisti a non pretendere dai propri fornitori la produzione di jeans dall’aspetto sabbiato o con effetti che possono essere ottenuti solo con la sabbiatura, a meno che non siano garantiti tempi di consegna e tariffe di commessa sufficienti per consentire ai fornitori di introdurre metodi di lavorazione alternativi per conseguire lo stesso risultato.

RACCOMANDAZIONI

Chiediamo che siano adottate le seguenti misure:

Imprese proprietarie di marchio

I marchi devono cessare immediatamente l’uso della sabbiatura in tutta la loro filiera produttiva. A questo fine, chiediamo che le imprese continuino a sostenere pubblicamente il divieto assoluto e mettano in atto adeguati meccanismi di monitoraggio per accertare l’effettiva cessazione dei trattamenti con sabbiatura in collaborazione con le organizzazioni sindacali locali/di fabbrica e le organizzazioni non governative in Bangladesh e in ogni paese dal quale si riforniscono. I marchi devono elaborare modelli stilistici e richiedere tempi di consegna per gli ordini di abbigliamento in tessuto denim che non comportino né incoraggino l’uso della sabbiatura nel processo produttivo e non devono imporre ai fornitori la realizzazione di prodotti tessili con effetto sabbiato per consegne in tempi eccessivamente brevi.

I risultati dell’indagine presentata in questo rapporto evidenziano che non è sufficiente limitarsi al semplice annuncio della messa al bando dei trattamenti incriminati. Al contrario, i marchi devono dimostrare che producono capi in tessuto denim solo in siti produttivi che non fanno ricorso a nessun tipo di sabbiatura, sia essa manuale o meccanica, e che offrono i più elevati standard di salute e sicurezza.

Chiediamo inoltre ai marchi di collaborare con i fornitori che desiderano eliminare la sabbiatura dal loro ciclo produttivo assicurando loro la necessaria assistenza.

I marchi citati in questo rapporto e tutti quelli che si sono impegnati a rispettare il divieto devono garantire che il trattamento con sabbiatura sia completamente abbandonato. Qualora il marchio non possedesse la necessaria autorità, esso dovrebbe rafforzarla, come indicato nel documento UN Guiding principles and framework delle Nazioni unite, “offrendo, per esempio, misure di capacity-building o altri incentivi ai soggetti in questione, oppure attraverso la collaborazione con altri attori”.

I marchi devono provvedere affinché ai lavoratori occupati nelle loro filiere produttive, che hanno già contratto la silicosi, siano erogati congrui risarcimenti economici, e che i lavoratori e le loro famiglie siano indennizzati anche per il peso economico aggiuntivo sopportato in conseguenza della malattia (per esempio l’inabilità al lavoro) e che sia garantita la copertura per le spese mediche.

I marchi devono collaborare con i propri fornitori affinché tutti i lavoratori che sono stati esposti a polveri silicee, per qualunque tipo di mansione, siano sottoposti a sorveglianza sanitaria e a diagnosi precoce, provvedendo a fornire cure mediche e indennizzi a coloro che risultano aver già contratto la silicosi.

I marchi devono effettuare una seria valutazione dei rischi ogni volta che introducono nuove tecniche di lavorazione nel ciclo produttivo. In via preliminare, in conformità con le indicazioni degli UN Guiding principles and framework, essi devono esercitare la dovuta diligenza (due diligence) prima di aggiornare le metodiche o adottare nuove tecniche di trattamento del tessuto denim.

Stati

Gli stati non devono consentire l’uso della sabbiatura nella produzione dei jeans. Chiediamo che essi si impegnino ad adottare e a dare attuazione a misure di legge per vietare l’uso della sabbiatura manuale e meccanica, e per migliorare le condizioni di salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Gli stati devono provvedere affinché i lavoratori che hanno già contratto la silicosi ricevano sostegno, assistenza sociale e medica, e pensioni di invalidità, qualunque sia stato il loro rapporto di lavoro, nell’economia ufficiale o sommersa.

Chiediamo all’Unione europea di mettere in atto misure per vietare l’importazione di jeans sabbiati e alle imprese di sostenere attivamente l’attuazione di tale divieto.

Organismi internazionali

Chiediamo all’Organizzazione internazionale del lavoro e all’Organizzazione mondiale della sanità di inserire la filiera del jeans nei programmi volti a sradicare la silicosi a livello mondiale. Sollecitiamo, in particolare, la predisposizione di un programma specifico per il Bangladesh, nel quadro del quale sia profuso il massimo impegno per diffondere la necessaria informazione sui rischi derivanti dall’uso di sabbia silicea sia presso i lavoratori sia presso la classe medica.

Le numerose segnalazioni dalle quali risulta che nell’Unione europea, in paesi come il Portogallo e l’Italia, si fa ancora ricorso alla sabbiatura per trattare i jeans, devono diventare oggetto di indagine al fine di porre termine a questo tipo di lavorazione anche all’interno dei confini europei.

Chiediamo alle Iniziative multi-stakeholder e alle Iniziative imprenditoriali che si occupano di standard del lavoro nell’industria dell’abbigliamento di usare la propria influenza affinché i propri associati abbandonino la sabbiatura in tutte le loro filiere produttive.


 

QUALCHE DATO SULL’INDUSTRIA DELL’ABBIGLIAMENTO IN BANGLADESH E TURCHIA

BANGLADESH

Il settore dell’abbigliamento è il pilastro dell’economia nazionale, assorbe l’80% di tutto l’export per un valore pari a oltre 17 miliardi di dollari, il doppio di quanto fatto registrare 6 anni fa. Il Bangladesh è il secondo maggiore esportatore mondiale di abbigliamento e il terzo fornitore dell’Unione europea dopo Cina e Turchia. Il settore conta 5.150 aziende che occupano 3,6 milioni di lavoratori. Nel 2011 sono stati esportati oltre 200 milioni di paia di jeans, con una quota sabbiata stimabile in 86


milioni di paia. Sulla base di queste cifre i ricercatori ipotizzano che siano in attività nel paese oltre 2 mila addetti alla sabbiatura occupati a tempo pieno per l’esportazione, ma tenendo conto della catena dei subappalti e della produzione per il mercato interno, il numero effettivo potrebbe essere molto più alto. Al crescere delle importazioni in Europa di jeans fabbricati in Bangladesh (il 19% di tutto l’import di jeans nel 2009) non corrisponde un aumento dei prezzi pagati ai produttori, che sono scesi da € 5,34 al paio nel 2000 a € 4,17 nel 2009: un calo del 22% circa che fa del Bangladesh il paese esportatore più economico, malgrado l’aumento dei costi, fra quelli che forniscono jeans al mercato europeo. Il dato testimonia la forte compressione salariale in un paese che ha retribuzioni fra le più basse al mondo nel comparto dell’abbigliamento. Il salario medio di un lavoratore è pari a € 32 contro una media in Cina di € 83-155 nel 2011. Il salario minimo legale è stato innalzato nel novembre 2010 a € 30 dopo anni di intense agitazioni sociali, ma l’Asian floor wage alliance calcola che per condurre una vita dignitosa occorrerebbero almeno € 60 per una singola persona e più di € 92 per una famiglia di 4 persone.

Il Bangladesh vanta un altro record negativo in relazione alla salute e alla sicurezza dei lavoratori: dal 2000 ad oggi sono morti in incidenti sul lavoro, spesso causati da incendi, crolli e impianti difettosi, almeno 339 persone occupate nella produzione di abbigliamento per noti marchi internazionali della moda (si veda per i casi trattati: www.abitipuliti.org)

TURCHIA

Ogni anno nel mondo si producono 5 miliardi di paia di jeans. Nel 2008 la Turchia occupava il terzo posto fra i maggiori esportatori di jeans con vendite per un valore pari a 2,3 miliardi di dollari e con 300 mila addetti su 3 milioni di occupati nell’industria dell’abbigliamento nel suo complesso. Si stima che nelle attività di sabbiatura dei jeans siano impiegate fra 10 e 15 mila persone, in maggioranza giovani fra i 13 e i 25 anni provenienti dalle campagne o immigrati dagli stati circostanti, Romania, Bulgaria, Moldavia, Georgia e Azerbaijan. La Turchia è il paese nel quale per la prima volta nel 2005 la silicosi è stata messa in relazione diretta con la sabbiatura dei jeans. I primi due casi diagnosticati riguardavano due ragazzi di 18 e 19 anni che avevano contratto la malattia, rivelatasi mortale, dopo solo 5 anni di latenza quando normalmente nei settori più esposti, per esempio in miniera, i sintomi si manifestano dopo 20-30 anni di lavoro. Ad oggi sono stati registrati 52 decessi e 1.200 casi di malattia conclamata, ma i medici stimano che le persone affette siano molte migliaia. In seguito alle pressioni esercitate dal Comitato di solidarietà con i lavoratori della sabbiatura, che riunisce ex sabbiatori, medici e ong, e di fronte all’inconfutabile evidenza scientifica, nel marzo 2009 il governo turco ha


decretato il divieto della sabbiatura con polveri silicee. Nel 2011 ha riconosciuto il diritto alla pensione di invalidità ai lavoratori che hanno contratto la malattia, ma solo se possono dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro. Questo significa che sono ancora esclusi tutti coloro che hanno lavorato nell’economia sommersa che in Turchia rappresenta il doppio dell’economia ufficiale.

05/04/2013




 
 
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